di Annamaria Tassone

Il treno della Metro Nord lascia Manhattan, percorre rapidamente i sobborghi di New York, imbocca la valle dell’Hudson costeggiando ben presto il grande fiume: tutto il viaggio verso Poughkeepsie (strano nome di origine indiana)  si svolgerà così, lungo il corso del fiume Hudson e pertanto sono soddisfatta di avere rinunciato a compierlo su un’autostrada che mi avrebbe privato dello splendido paesaggio che mi scorre innanzi.

Oltre Marble Hill il fiume si fa sempre più ampio, fino a sembrare un lago. In lontananza un lunghissimo ponte, che assomiglia al ponte di Brooklin, ne permette l’attraversamento. Dopo la stazione di Yoker tocchiamo alcune tipiche quiete cittadine americane, è la volta di Ossining, di Croton Harnon e di una serie di piccoli porti turistici fitti di imbarcazioni a vela. La ferrovia corre lungo l’Hudson al pelo dell’acqua e talvolta ne attraversa su piccoli ponti delle diramazioni che vanno a formare delle insenature ricche di flora acquatica.

Penso agli intrecci del caso. Penso allo scorrere della vita di cui il grande fiume è vivida immagine, allo scorrere della mia vita che attraverso le circostanze più impensabili (ma che è bello ripercorrere a posteriori), mi ha portato qui, in questo mattino del 1° agosto 2001, sulle tracce di una tomba che ho ignorato per tanto tempo e che ora è diventata importante.

Ma perché la cerco? Non certo per culto del passato, non è nel mio temperamento né sarebbe atteggiamento conforme allo spirito teilhardiano. La cerco come commovente e tangibile testimonianza di una realtà in divenire che ha prodotto e incrementa incessantemente la noosfera. Come paletto eminente di un percorso che attraverso il tempo costruisce la storia del nostro mondo e che, nonostante tutti gli intralci da superare, fa crescere la coscienza dell’umanità in direzione dello spirito. Come àncora alla quale è fissato il mio segreto desiderio che l’incremento di conoscenza, e di conseguente coscienza, che dalla visione teilhardiana del mondo è scaturito, possa finalmente dare i suoi frutti in modo pieno.

Ora il treno attraversa verdi e fitti boschi: tra il bosco di Sarcenat e il bosco di Poughkeepsie si è attuata una forte avventura esistenziale. Il percorso terreno di chi ha amato tanto fortemente la natura non poteva avere esordio e conclusione collocati in modo più adeguato! Quando alcuni anni fa stavo preparando il mio libro su Teilhard e la sua opera letteraria, volli recarmi a visitare il suo luogo natale in Alvernia. La casa avita circondata da un bosco fitto di abeti dal tronco fasciato di edere, lo spettacolare paesaggio che si contempla dalla cima sovrastante del Puy de Dôme e che pullula di piccoli coni vulcanici ormai mutati in verdeggianti collinette, ma che testimoniano in modo vivo il ribollire della Terra giovanile, mi raccontarono molto su Pierre Teilhard de Chardin e sulle vive sensazioni che forgiarono la sua mente, riflettendosi in seguito nella forma espressiva dei suoi scritti.

Eccomi oggi a contemplare i luoghi della sua fine, cioè della sua sepoltura ma anche dei suoi ultimi anni terreni. Ieri in Park Avenue, a New York City, Padre Dugan s.j. mi ha indicato il luogo dove soggiornò alla fine della sua vita e mi ha parlato con stima ed affetto di questo suo grande confratello. Nel corso di una piacevole e intensa conversazione abbiamo ripercorso i temi portanti del suo pensiero e sottolineato l’urgenza del suo apporto per un rinnovamento della mentalità nostrana che dall’osservatorio americano appare piuttosto statica; mentre contemporaneamente, con l’efficienza tipicamente americana, in pochi minuti mi fissava un appuntamento per il ritiro della chiave del cimitero dove giacciono le spoglie di Teilhard, mi forniva l’eventuale percorso automobilistico da seguire, gli orari ferroviari per raggiungere Poughkeepsie, e un immediato contatto telefonico con la Georgetown University dove desideravo trarre delle informazioni. Ripenso a queste cose mentre fuori dal finestrino del treno scorrono prati, boschi e acqua e lunghi treni merci che corrono sull’altra sponda dell’Hudson, e piccole costruzioni bianche che punteggiano le colline, e gallerie scavate nella roccia ferrosa, e degli imprevedibili, assurdi ruderi di un castello medioevale scozzese sorgenti su un isolotto in mezzo al fiume, probabile stramba realizzazione di qualche miliardario locale. Infine una rapida corsa in taxi mi conduce dalla stazione di Pougheepsie a St.Andrew on Hudson, l’antico seminario dei Padri Gesuiti.

Il piccolo cimitero nel bosco, la cui chiave mi viene fornita nell’ufficio security di quello che, da seminario, è stato trasformato nella più grande Università Culinaria degli Stati Uniti, mi accoglie in un abbraccio di silenzio e di pace. Decine di lapidi, tutte in fila, tutte uguali e annerite dal tempo, si stendono in due settori successivi, separati da un prato pianeggiante, qua e là ombreggiati da alcune conifere. Nel secondo settore, in terza fila sulla sinistra, si distingue una lapide un po’ più bianca (segno di una qualche maggior cura e quindi di una maggior frequentazione) delimitata da un fazzoletto di prato circondato da un contorno di pietre aguzze (certamente opera di qualche mano amica), fiancheggiata da due rozzi cespugli di fiori in questo momento appassiti:

I   H   S

Petrus Teilhard de Chardin S.J.

Natus 1 mai. 1881

Ingressus   19 mar. 1899

Obiit 10 apr.1955

R. I.

Mi fermo lungamente in meditazione e certamente i momenti trascorsi vicino a quella tomba resteranno per sempre, quale emozione forte e rasserenante ad un tempo, nel mio animo. Suona mezzogiorno all’antico carillon della casa di St. Andrew e con esso mi pare di sentir risuonare le parole scritte da Teilhard l’11 novembre 1953:”Ed ora la vita ricomincia in questa grande New York che finalmente mi piace molto…..!” Il grande albero radicato in Alvernia, ha spinto la sua vetta fin qui, in questa nazione di nazioni, in questa società multi etnica che a prezzo di mille difficoltà e contraddizioni offre pur sempre l’immagine di una possibile sintesi e di una tensione all’in-avanti senza la quale tutto fallisce. Veramente mi pare assai significativo che questo grande cittadino del mondo sia stato condotto dalla Vita a concludere la sua traiettoria terrena sulle sponde di questo fiume maestoso, lontano dalla sua patria d’origine, ma in un luogo del pianeta che, per una legge di alternanza delle civiltà (che a prescindere da valori o meriti, storicamente si ripete) pare oggi destinato a condurre l’evoluzione.

Me ne vado a fatica; volgendomi dal cancello per un ultimo sguardo d’insieme, i miei occhi, ormai avvezzi, riescono, anche a distanza, a distinguere quella lapide un po’ più chiara. Quel suo spiccare tra le altre sembra dare, a colui che ivi riposa, il ruolo di chi, più trasparente, più ricettivo alla luce, più avanti nel percorso dell’intuizione, ha avuto la capacità di trascinare con sé, come in uno sciame che si eleva, l’insieme degli umani. E a questo punto mi allontano, con l’animo pieno di speranza.