Bergoglio e lo sguardo “universalista” sul mondo di Pierre Teilhard de Chardin.[1]

di Paolo Trianni

Un Papa che cita Teilhard de Chardin fa sempre notizia. Se lo fa papa Francesco, però, sorprende meno. In primo luogo perché lo aveva già fatto, avendolo citato all’interno dell’enciclica Laudato si’. Soprattutto, però, il richiamo non deve meravigliare perché questo papa si potrebbe addirittura definire “teilhardiano”. Ad unirli non è tanto l’appartenenza alla Compagnia di Gesù, quanto lo sguardo universalista sul mondo, l’attenzione alla contemporaneità e una fede declinata sui bisogni concreti dell’umanità. Non pochi fedeli, invece, sono stati sorpresi dall’ascoltare il suo nome durante l’omelia pronunciata in Mongolia, colpiti dalla strana storia di questo prete rimasto senza il pane ed il vino necessari per celebrare la propria quotidiana messa. Sono ancora molti, del resto, i cattolici che non conoscono questo gesuita dalla vita da film, che fu scienziato, esploratore ed eroe premiato con la Legion d’onore. Chi già lo conosceva, invece, è stato sorpreso perché sanno che su lui pende un Monitum. Ancora oggi, infatti, egli è ricordato come il gesuita proibito, perché, da geologo e paleontologo, ha approcciato la Genesi con lo sguardo di uno scienziato. Se qualcuno, dunque, si è chiesto perché papa Francesco ha deciso di citarlo, va ricordato che l’occasione era propizia. Le steppe della Mongolia nelle quali il papa ha celebrato messa, sono prossime a quelle in cui anch’egli ha celebrato. Teilhard de Chardin, inoltre, si può considerare, sia pure più per obbedienza che per vocazione, un missionario della Cina moderna, avendoci trascorso un ventennio. Soprattutto, però, richiamarlo è stata un’occasione per riflettere sull’eucarestia e sulla guerra. Chiediamoci, pertanto, qual è senso di quella sua “messa sul mondo” menzionata da Francesco. Nel deserto di Ordos, trovandosi senza pane, né vino, né altare, Teilhard de Chardin offrì a Dio tutta la terra e il lavoro e la pena del mondo. Egli trasformò così quel rito liturgico in un inno rivolto ad un universo in gestazione, in cammino verso la sua ricomposizione e completezza finale. Per comprendere teologicamente questa celebrazione così inusuale, bisogna ricordare quella dottrina del pancristismo che lui aveva assunto da Blondel e dai padri greci e poi fatta propria rileggendola ulteriormente come Anima Mundi. La logica del pancristismo, insegnando che Cristo è dappertutto e nelle fibre del tutto, rende legittimo offrire a Dio non soltanto le specie del pane e del vino, ma anche la sua intera presenza ed opera cosmica. Per Teilhard de Chardin l’eucarestia non era solo il centro del mondo, era la sua sostanza, la sua reificazione, la sua santificazione. Nella convinzione del sacerdote francese, è proprio attraverso l’eucarestia che l’universo arriva al suo compimento, perché è attraverso di essa che Cristo entra nell’uomo e, per suo tramite, nel cosmo e nella storia. L’eucarestia si può dunque considerare il “cuore della materia”. Di essa, potremmo dire, ne rappresenta il centro pulsante. Se la distruzione attuale della casa comune nasce dal fatto che l’uomo contemporaneo ha perso il senso della sacralità del cosmo, la sua visione aiuta invece a leggere in modo nuovo la sacralità di una natura che è tale perché animata dallo Spirito di Cristo e mossa da una interna forza che la “muove verso” Dio. La messa teilhardiana insegna che c’è un Omega, che c’è un ritorno, che c’è un termine ultimo di comunione tra cielo e terra. Nelle steppe dell’Asia, però, non era la prima volta che Teilhard de Chardin si trovava nelle condizioni di dovere celebrare la sua eucarestia, per così dire, a mani nude. Gli era già successo sul fronte occidentale, tra la melma e i corpi straziati dei commilitoni che lui, barelliere, con apparente incoscienza, accorreva a salvare sprezzante del pericolo. È questa un’altra ragione che ha spinto papa Francesco a citarlo, perché nessuno è più pacifista di chi ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra. La sua testimonianza, inoltre, è tanto più significativa nella misura in cui fu capace di vedere Dio e l’evoluzione del mondo anche sotto la disumanità dei bombardamenti, e non per ingenuo ottimismo, ma in virtù della fede che Omega trionferà alla fine su tutto. Questo teologo, certamente incompreso, come ha scritto il papa, ha indubbiamente firmato, però, delle pagine su cui si dovrà riflettere ancora a lungo. Persino uno dei suoi più cari amici, Henri de Lubac, riconosceva che solo filtrato da Jules Monchanin il suo pensiero diventa pienamente accettabile. Fatte queste premesse, sembra però maturo il tempo per una revoca del Monitum del 1962, che sarebbe dovuta essere una condanna assai più grave e che Roncalli in persona, secondo quanto ha confidato Loris Capovilla, mitigò ad un più blando monito. Non c’è dubbio, del resto, che questo gesuita rappresenti una risorsa per la cristianità del terzo millennio. Molte delle questioni che sta oggi affrontando la chiesa sinodale, egli le ha riflettute un secolo fa. Per certi versi, non è solo attuale, è ancora avanti. La sua, d’altro canto, non è solo una teologia, ma una nuova visione di cristianesimo ed un neo-umanesimo. Il suo sguardo sul mondo rimane innovativo perché concilia la materia con lo Spirito e la Bibbia con la scienza. La sua spiritualità della traversata, inoltre, è inusitata perché enfatizza i valori incarnazionistici dell’esistenza come non ha fatto nessun altro autore spirituale della chiesa. Teilhard de Chardin rimane l’emblema, cioè, di un cristianesimo convintamente incarnazionista. Lo dimostra quanto diceva ad un confratello nelle affollatissime strade di Park Avenue, quando, non molto prima dell’infarto che gli sarebbe stato fatidico, gli confidava di vivere costantemente alla presenza di Dio. Questo gesuita, che aveva espresso al nipote il desiderio di morire il giorno di Pasqua ed è morto proprio quel giorno, è anche il simbolo di un cristianesimo della trasfigurazione, della continuità tra i valori terreni e quelli assoluti, di una vita che non va disprezzata ma sublimata. È questa la ragione per la quale il cristiano può offrire a Dio la sua quotidianità, dal momento che Cristo è in tutte le cose, anche quelle apparentemente irrilevanti. E il sacerdote che offre a Dio il sacrifico di Cristo, può ben offrirgli il cosmo intero. Perché l’intero cosmo è Lui.


Una versione ridotta è stata pubblicata sull’Osservatore Romano del 06 settembre 2023

[1] Questa è la versione completa.