Sulla sofferenza

di Nicoletta Amodio

 

A cura di Nicoletta Amodio

Il testo * che si intende presentare, edito da Gabrielli, i cui autori sono un neuroscienziato e un counselor spirituale, reca già nel suo titolo tutta la potenza di ciò che si andrà a sviluppare nell’incedere della trattazione. Essa, secondo quanto già anticipato, viene snocciolata “a quattro mani” e, più nello specifico, da due cultori di Teilhard de Chardin (d’ora in poi, TdC).

Il fulcro dell’opera è il tema del patire, spesso oggetto di certosino evitamento in una società quale quella attuale, votata alle patinature, all’epidermicità, alla negazione, sostanzialmente, degli autentici moti dell’animo, in favore di un disimpegno che fa sembrare sempre tutto più domabile, vincente, raggiungibile con poca fatica.

L’accoglimento del dolore e della sofferenza – di cui, peraltro, nelle pagine si traccia una differenza molto sottile, ma essenziale – intesi non come pretesti di teatralizzazione e strumentalizzazione o carburanti di ciò che si può far rientrare solo nell’alveo di un dolorismo estemporaneo e di un’emozionalità sentimentalistica e frivola, è la chiave per evolvere. I due termini, sovente utilizzati abusivamente in qualità di sinonimi, in realtà hanno significati differenti. Il primo si inquadra in maniera più corretta se il riferimento è alla sfera sensoriale negativa; la seconda, invece, pur comprendendo il richiamo alla componente algica e rifacendosi all’etimo latino sufferentia (capacità di sopportazione), racchiude un contenuto più ampio, anche se precipuamente umano e, dunque, autoriflessivo, esperito, consapevole, connubio di spirituale e razionale, fisico e trascendente.

L’epoca corrente, con la sua abulia e carenza di attribuzione di senso, ha eletto l’uomo a misura di tutte le cose, riponendo in lui, finito, una prospettiva non corresponsibile, poiché dal respiro illimitato, infinito. Questo fenomeno antropologico, che ormai permea in modo capillare ogni fibra del nostro tempo, sospinge in via inesorabile il corroboramento della visione antropocentrica, autoreferenziale, cieca e, perciostesso, parziale e non integrata, che condanna l’individuo alla parcellizzazione, nonché al totale isolamento e al disamore per la sana dialettica relazionale. Ecco che subentra il malessere, la sensazione di manchevolezza, di cui, però, ci si guarda bene dal mettersi nella condizione di comprendere le autentiche cause, rivolgendo il motivo del proprio versare in condizioni non serene all’esterno e cadendo nel vittimismo, più rassicurante, senza che il soggetto, nella sua apparente unità, sia messo in discussione.

La sofferenza, invece, è un percorso – in primis – personale, edificante, è ipoteca sul futuro, è (ri)nascita, ascensione, non per forza religiosa, nondimeno senza dubbio spirituale, financo sacrale. Senza spiritualità – che in questo testo è marcatamente orientata, ma che si può declinare altresì in senso più laico (infatti, non è necessario essere credenti per essere individui spirituali) – coniugata con la resistenza e la comprensione – intesa nelle vesti di inclusione all’interno del proprio orizzonte esistenziale – del patimento, non può esserci crescita umana.

Non manca una considerazione sulla morte, che, in realtà ne propone tantissime altre. Una, tuttavia, è da segnalare più di tutte: essa va concepita in una dimensione universale e non individualistica, poiché ciò permette di intravvederne un “senso cosmico”.

Un altro punto fondamentale è quello che riguarda la non demandabile riappropriazione della ragione del cuore, nell’equilibrio delicato fra intelligenza emozionale e spirituale, che insieme, dialogando, devono volgere verso l’infinito che si cela in ciascuno, senza respingerlo, posto che il risvolto negativo sarebbe la frammentazione inesorabile dell’angoscia.

È curioso, ancora, constatare come, sebbene vi siano stati notevoli progressi in campo biomedico e scientifico, la sofferenza non sembri aver subìto una attenuazione nella sua intensità. Anzi, forse, si è ulteriormente amplificata, in una modernità che esalta ed è tutta votata alla perfezione e non ammette tensioni né deficienze.

Ecco che, quindi, essa è ritenuta un fallimento della ragione, quando la si potrebbe cogliere come occasione, kairós, in tutta la sua ricchezza di contenuti e significatività.

In ultima, ma non meno importante analisi, sono presenti riferimenti costanti a personalità di spicco della cultura del ‘900; anzitutto, il già menzionato padre TdC, che ha avanzato una possibile spiegazione sul “perché” della sofferenza, dopo essere stato vittima diretta delle trincee della Prima Guerra Mondiale; poi, Pavel Florenskij, Etty Hillesum e Viktor Frankl, a diverso titolo tutti martiri senza mediazione dell’inferno dei campi di sterminio e dei gulag.

Una cospicua bibliografia (circa sessanta titoli) a corredo, infine, consente al lettore interessato di destreggiarsi e orientarsi nella meditazione sulla sofferenza, nel corso dei secoli e delle culture.

Uno scritto che non ha certo la pretesa di fornire delle risposte esaustive e definitive a temi così complessi, delicati, privati, eppure universali (si piange nello stesso modo in tutte le lingue del mondo), ma che si pone quale validissimo suggerimento, punto di partenza per non abdicare mai ad un pensiero interrogante, non asfittico, passibile di modifiche, fertili dubbi e dare il proprio assenso ad abbracciarne uno maggiormente fecondo e antropopoietico.

Dopotutto… “(…) Il nostro rapporto con il dolore rivela in quale società viviamo (…)”, come rammentava Schmertz.

(*) Vittorio Antonio Amodio, Edmondo Cesarini, Sulla sofferenza
PER UN “AMABILE DOVERE DI CRESCERE”,
Gabrielli Editori, 2023, 109 pagine

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