Luciano Mazzoni Benoni
La Rivista La civiltà cattolica, nel fascicolo 4185 – novembre 2024, dedica uno studio a questo tema, cruciale per secoli e tuttora talvolta ancora frainteso, alla luce della testimonianza e delle ricerche del gesuita belga. Va detto in premessa che già alcuni anni or sono la medesima Rivista gli dedicò un servizio dal titolo: L’intervista ritrovata di Georges Lemaître, il padre del “Big Bang” (marzo 2023).
Già di per sé questa figura merita attenzione e rispetto: vale quindi la pena ricordare preliminarmente -sia pur brevemente- il suo profilo di studioso.
Georges Henri Joseph Édouard Lemaître (Charleroi, 17 luglio 1894 – Lovanio, 20 giugno 1966) è stato un fisico, astronomo e presbitero belga: ordinato sacerdote nel 1923 e studente nella facoltà di ingegneria all’università di Lovanio (di orientamento tomista) dal 1911 al 1920, conseguendo il dottorato in matematica e fisica e poi il baccalaureato in filosofia, nella quel fu poi docente. Studiò astronomia all’università di Cambridge, perfezionandosi successivamente negli USA: prima all’Harvard College Observatory diretto da Harlow Shapley (1885-1972), quindi al Massachussets Institute of Technology (M.I.T.)
Rientrato in Belgio, nell’ottobre del 1925 è incaricato di tenere alcuni corsi presso la Facoltà di Scienze dell’Università Cattolica di Lovanio. Sino al 1964 vi insegnerà astronomia, meccanica quantistica, calcolo delle probabilità, storia e metodologia della matematica e teoria della relatività. Nel 1926, dopo la sua tesi di Lovanio, propone e discute con successo presso il M.I.T. la tesi dal titolo Il campo gravitazionale in una sfera fluida di densità uniforme e costante, secondo la teoria della relatività, il cui tema di studio gli era stato suggerito da Eddington. In questa tesi, a tutt’oggi inedita, pone le basi per lo studio di un modello di universo non omogeneo a simmetria sferica (universo di Tolman- Lemaître). Il quadro teorico usato nella sua tesi gli permette di unire, in un solo modello matematico, i campi di Schwarzschild (campi gravitazionali attorno e all’interno di una stella sferica di densità costante), l’universo statico di Einstein (universo omogeneo e sferico, di raggio e densità costanti) ed il modello di universo proposto dall’astronomo olandese de Sitter (universo omogeneo e isotropo, ma senza materia).
Fino al 1931 Lemaître non ebbe l’idea di discutere scientificamente la questione riguardante il c.d. “inizio” dell’universo. L’origine dello “spazio-tempo-materia” poteva essere secondo lui descritta utilizzando la termodinamica e la meccanica quantistica. Egli propone si possa trattare della disintegrazione di un unico quantum che riunisce in sé tutta “l’energia-materia” dell’universo in uno stato di massimo ordine (cioè con entropia). Questo quantum è battezzato da Lemaître: «atomo primitivo» (cfr. G. Lemaître, The Beginning of the World from the Point of Quantum Theory, 1931).
Fu il primo a capire che lo spostamento verso il rosso della luce delle galassie era la prova dell’espansione dell’universo e a proporre la relazione di proporzionalità fra la distanza delle stesse galassie e la loro velocità di recessione, poi confermata da osservazioni sperimentali con la legge di Hubble. Nel 1927 pubblicò l’ipotesi dell’atomo primigenio, oggi nota come teoria del Big Bang. Da notare come Lemaître stesso descrisse la propria teoria del quanto cosmico iniziale come l’uovo cosmico che esplodeva al momento della creazione; una terminologia che alludeva alle intuizioni cosmogoniche di moltissimi popoli primitivi. A partire dal 1931, Lemaître, abbandona il suo modello di universo a raggio esponenzialmente crescente per adottare un universo sferico con tre fasi evolutive caratteristiche, iniziando da una “singolarità iniziale”, che coinciderebbe con la disintegrazione dell’atomo primitivo. L’evoluzione dell’universo di Lemaître (il cui modello era stato scoperto anche da Friedmann) è regolato dal gioco di due “forze” antagoniste. L’una è la forza di gravità, che tende ad avvicinare tra loro le masse, e l’altra è una “forza repulsiva” (forza centrifuga) la cui intensità è legata alla «costante cosmologica» (la cosiddetta costante Λ) e che tende a controbilanciare l’effetto della gravità. Lemaître, come Eddington, ma contro l’opinione “estetica” di Einstein, riteneva che questa costante traducesse una proprietà fisica essenziale dell’universo. Oggi sembra che l’esperienza gli abbia dato ragione. Le osservazioni più recenti sulle supernovae lontane mostrano che il valore di questa costante probabilmente non è uguale a zero. Dal punto di vista teorico, la «costante cosmologica» può essere interpretata come espressione di una “pressione”, quella dovuta al contributo dell’energia del vuoto quantistico. La teoria di Lemaître fu chiamata teoria del Big Bang da Fred Hoyle il 28 marzo 1949, durante una trasmissione radiofonica della BBC. Negli ultimi anni si interessò a fondo di calcolatori elettronici e di informatica. Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1966, seppe che era stata individuata la radiazione cosmica di fondo, che provava praticamente la sua teoria. Prima di morire pronunciò una delle sue più celebri frasi: «L’espansione dell’universo è provata soprattutto dalla costante espansione delle capacità umane».
Mons. Lemaître non era né un filosofo né un teologo; tuttavia di fronte a interrogativi di alcuni suoi colleghi, o anche del grande pubblico, soprattutto di origine anglosassone, negli anni trenta fu portato a precisare esplicitamente il modo in cui egli intendeva i rapporti tra scienza e fede.
Alla base della sua posizione vi era un netto rifiuto del concordismo. Non intendeva affatto mescolare l’approccio scientifico con quello teologico che costituivano, secondo le sue stesse parole, «due percorsi verso la verità», due approcci legittimi, ma ciascuno con la loro propria autonomia. Come egli affermò chiaramente in un’intervista all’inizio degli anni trenta: «Esistono due vie per arrivare alla verità. Ho deciso di seguirle entrambe. Niente nel mio lavoro, niente di ciò che ho imparato negli studi di ogni scienza o religione ha cambiato la mia opinione. Non ho conflitti da riconciliare. La scienza non ha cambiato la mia fede nella religione e la religione non ha mai contrastato le conclusioni ottenute dai metodi scientifici» (Aikmann, 1933, p. 18). L’ipotesi dell’atomo primitivo risultò così influente da sorpassare i limiti della fisica e dell’astronomia. In effetti, essa contribuì ad alimentare le riflessioni del celebre filosofo svizzero Ferdinand Gonseth (che diresse la redazione e scrisse la prefazione del libro di Lemaître: L’hypothèse de l’atome primitif) e di Padre Teilhard de Chardin (1881-1955). Quest’ultimo, che non aveva mai tenuto una corrispondenza con il sacerdote e cosmologo di Lovanio, era molto interessato alla dimensione evolutiva della sua cosmologia e riteneva che il concetto di “atomo primitivo” rimandasse, per simmetria, al “Punto Ω”, di cui parlavano le riflessioni del paleontologo gesuita. Così come l’atomo primitivo non appartiene allo spazio, al tempo e alla materia, ma ne costituisce la fonte e l’origine materiale, anche il Punto Ω non è identificabile con alcuna realtà o processo biologico o cosmologico, collocandosi invece come la loro causa finale, il loro telos (cfr. P. Teilhard de Chardin, La place de l’homme dans la nature, in “Oeuvres”, Paris 1977, vol. VIII, pp. 166-167).
In uno studio pubblicato nel 2002 da Dominique Lambert (sul sito web Documentazione interdisciplinare di Scienza e Fede, promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce: www.disf.org), rivela nelle conclusioni un dettaglio di una certa rilevanza sul piano ecclesiale: “Il merito di Lemaître è stato quello di aver dimostrato che si possono legittimamente affrontare le questioni cosmologiche e soprattutto quelle relative allo stato iniziale dell’universo (l’inizio fisico naturale) da un punto di vista strettamente scientifico, indipendentemente da ogni opzione metafisica o religiosa: la teoria del Big Bang è una teoria fisica e non una dottrina, né un’opzione “meta-fisica”. Nondimeno, il limite della distinzione metodologica che Lemaître instaura tra i «due percorsi verso la verità» rischia di suggerire, a torto, che un dialogo fecondo tra cosmologia fisica e teologia della creazione non sarebbe pertinente. Mons. Lemaître, a motivo della sua formazione e non essendo egli né un teologo, né un filosofo professionalmente coinvolto come tale, non era incline ad accettare dei “compromessi” che conducevano ad una mediazione, a un dialogo tra la sua scienza e l’esplicitazione razionale della sua fede. Verosimilmente è per questo motivo che, all’inizio degli anni sessanta, essendo in quel momento Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, fu totalmente preso alla sprovvista dalla domanda postagli da Papa Giovanni XXIII circa il possibile contributo di questa Accademia ai lavori preparatori per il Concilio Vaticano II (cfr. D. Lambert, 2000, pp. 300-301)”. Inoltre va sottolineato come dal 1936 fu nominato membro della Pontificia accademia delle scienze, della quale fu presidente dal 1960, succedendo a p. Agostino Gemelli.
Va infine chiarito che -fatto poco noto- nel 2018 l’Unione Astronomica Internazionale ha stabilito, dopo due votazioni tra i suoi membri, di raccomandare che la legge di Hubble venisse re-intitolata comprendendo anche il nome del fisico belga nella formula congiunta “Legge di Hubble-Lemaître“. La decisione è stata presa come riconoscimento del fondamentale contributo di Lemaître alla legge che mette in relazione di proporzionalità la velocità di recessione delle galassie e la loro distanza, da lui per primo formulata teoricamente nel 1927
Venendo ora all’articolo menzionato, a firma di p. Ignacio Nunez de Castro sj, va detto che si tratta di una illustrazione corretta ed attenta: che tralascia gli aspetti meramente scientifici, per mettere a fuoco la questione del nesso scienza-fede, così tormentato nei secoli scorsi. L’Autore mette in evidenza come il punto di vista del padre Lemaître si sia evoluta nel tempo: muovendo da un “ingenuo concordismo di un tomista fedele” (sulla base del Magistero pontificio: si pensi alla enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII) -comunque definito nell’articolo “concordismo debole, lontano dal concordismo forte che stabilirebbe un parallelismo diretto tra la letteralità biblica e alcuni risultati delle scienze”- ad una visione più matura, acquisita grazie al dialogo con il prof. Eddington: la soluzione “delle due vie”.
Va precisato comunque, rispetto a questo criterio, come fa opportunamente l’Autore, che padre Lemaître si lamentava che esso venisse inteso voler relegare la fede ad un’esperienza solo intima, come sottintendeva Eddington: come ebbe a chiarire in una intervista al New York Times nel 1933: chiarendo che la religione basata sulla rivelazione offre verità per il piano di salvezza, mentre la scienza indaga con metodi empirici i misteri dell’universo. Idee poi riprese -ad avviso dell’Autore- nella costituzione conciliare Dei Verbum. Sicchè il gesuita belga “riuscì a vivere senza tensione e senza intime lacerazioni la sua vocazione scientifica e la vocazione religiosa all’inizio del suo lavoro accademico”; riteneva soddisfacente la tesi delle “due vie”, poiché essa “consente di trasformare tutti i conflitti tra la scienza e la fede: essi spariscono nella misura in cui si constata che le due vie si collocano su piani completamente diversi”. L’articolo si sofferma però nel commento al famoso discorso di Pio XII del 1951, noto con il titolo “Un’ora”.
La precisa posizione di Lemaître sulla distinzione tra i «due percorsi verso la verità» lo indusse a reagire al discorso pronunciato da Papa Pio XII (1939-1958) il 22 novembre 1951 davanti alla Pontificia Accademia delle Scienze. In questa allocuzione, il Papa intendeva dimostrare che le più recenti scoperte dell’astrofisica potevano essere utili per arricchire le basi a partire dalle quali si sviluppavano le «vie tomiste» che conducono l’intelligenza filosofica a dimostrare l’esistenza di Dio. Nonostante qualche appunto prudente riguardo la possibilità di utilizzare la cosmologia fisica nel contesto delle “prove dell’esistenza di Dio”, il discorso presenta, in certi passaggi, accenti lievemente “concordisti” come può evincersi dal seguente brano: «Pare davvero che la scienza odierna, risalendo d’un tratto milioni di secoli, sia riuscita a farsi testimone di quel primordiale Fiat lux allorché dal nulla proruppe con la materia un mare di luce e di radiazioni, mentre le particelle degli elementi chimici si scissero e si riunirono milioni galassie» (Discorsi e Radiomessaggi, XIII, p. 404). L’articolo riferisce la presa di distanza a tal proposito del Lemaître, che però la rese pubblica soltanto nei suoi ultimi anni, il 23 giugno 1963, nel corso della conferenza su “Universo e atomo”: in cui tuttavia egli intendeva replicare ad un passo della Encyclopedie de la Pléiade: Astronomie, da poco pubblicata. Essa pareva infatti presentare il suo pensiero come favorevole alla ipotesi di una “creazione soprannaturale del mondo”. Al contrario, egli volle rimarcare. “Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato di mostrare che la scienza apriva spazio a un inizio naturale del mondo: proprio il contrario di ciò che mi si mette in bocca sulla Pléiade”; e insiste: “non esiste più un premondo che che potrebbe essere stato il vero inizio, ma quello che si contempla come vero inizio; un inizio naturale che non abbiamo più bisogno di qualificare come creazione a partire dal nulla”. Opportunamente l’Autore precisa: “Anni dopo, nel 1965, Penzias e Wilson pubblicavano il ritrovamento della radiazione cosmica di fondo, che confermava l’ipotesi di Lemaître, il quale, poco dopo il 20 giugno 1966, sarebbe morto di leucemia senza aver visto la verifica sperimentale della sua ipotesi sull’inizio naturale dell’universo”.
A questo punto, p. Ignacio Nunez de Castro riapre una riflessione sul tema del nodo scienza-fede, rilanciando una considerazione sollevata a suo tempo da Dominique Lambert: “la teoria delle due vie ci lascia un po’ insoddisfatti, perché introduce una sorta di profonda frattura nell’unità della conoscenza umana”. Obiezione che sottoscriviamo e che -in più occasioni ed in più sedi- abbiamo avuto modo di far presente a quanti (anche simpatizzando per Teilhard de Chardin) continuano tuttavia a ritenere necessaria la separazione dei due piani: appunto, scienza e fede. Questo punto di vista viene fatto proprio dallo stesso articolista: “le due conoscenze restano giustapposte nell’intimo del cuore del credente e gli lasciano una scarsa possibilità di articolare e di formulare una sintesi personale. Come afferma Ian Barbour «la suddivisione evita il conflitto, ma al prezzo di rendere impossibile qualsiasi interazione costruttiva» … Come ha scritto Hans Urs von Balthasar: «Le realtà che si ritrovano in apparenza senza relazione, cioè la scienza e il cristianesimo, sono collegate tra di loro da un campo intermedio: un campo che, visto dalla scienza, si dà come “visione del mondo”, mentre, visto dal cristianesimo, appare come “religione” e, al centro, come “filosofia”».”. E l’articolo così conclude, dopo il richiamo all’apprezzamento recentemente rivolto da papa Francesco al gesuita belga (Discorso ai partecipanti al Ii Convegno delle Specola Vaticana in memoria di Georges Lemaître: «Buchi neri, onde gravitazionali e singolarità spazio-temporali», Roma 20 giugno 2024):
“Certamente la desacralizzazione nella spiegazione del cosmo è segno di una religiosità sincera e rispettosa: infatti, paradossalmente, l’uomo profondamente religioso vedrà sempre in tutte le cose la traccia di Colui che sta «passando per questi boschi con premura» (Giovanni della Croce, Cantico spirituale); Dio sarà sempre l’assente e il presente, il trascendente e l’immanente, «Dio tutto in tutti» (1 Cor 15,28).
Facciamo nostre dette conclusioni: osservando però che non sarebbe stato fuori luogo richiamare il nome di Teilhard -che pure non ebbe rapporti diretti col confratello e collega Lemaître- proprio a motivo della sua insistenza pervicace nel voler ricercare una soluzione non concordista bensì coerente al nodo sussistente tra scienza e fede.