di Alessandro Ghisalberti
Scrivo queste pagine sulla pace in un momento di difficoltà per la mia prospettiva di credente e per la mia vita dedicata alla riflessione filosofica, nel contesto delle guerre che, dal febbraio 2022 e poi dal 7 ottobre 2023, continuano ad angosciare le menti e i cuori. La maturazione della convinzione che il Vangelo imponga una opzione pacifista è avvenuta in me, in consonanza con il mondo cattolico pensante, con la crescita della convinzione che nessuna guerra è giusta e che la pace viene prima della guerra: il pacifismo belligerante è stato giustamente definito un “pericoloso ossimoro”, quello che in filosofia chiamiamo una contraddizione in termini. Prima di lasciare parlare di pace san Francesco, san Bonaventura e Dante, traggo ispirazione da san Paolo nella Lettera agli Efesini, dove tratta dell’“armatura” di cui deve dotarsi il credente in Gesù Cristo: “Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo avere superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio” (Ef 6, 13-16)
- San Francesco e la pace: piccola antologia
«Beati i pacifici, poiché saranno chiamati figli di Dio. Veramente sono pacifici coloro che per tutto ciò che soffrono in questo secolo, per amore del Signor nostro Gesù Cristo conservano la pace nell’animo e nel corpo»: questo è il testo della quindicesima delle ventuno «ammonizioni» attribuite a frate Francesco d’Assisi. Con «ammonizioni» si intendono brevi testi non scritti direttamente dal Poverello, ma redatti da qualche frate sulla base di quanto sentito dalla sua voce in circostanze non precisabili. Le «ammonizioni», comunque, riportano il pensiero francescano, come è agevole accertare confrontandole con altri «scritti» di frate Francesco.
Nel caso della «ammonizione» quindicesima, che appare una sorta di commento al versetto 5, 9 del Vangelo di Matteo, siamo introdotti nel cuore della “buona novella” di Gesù Cristo, ossia nel “discorso della montagna” con relative «beatitudini». Il commento francescano è un invito alla testimonianza cristiana che non può non essere pacifica, in quanto prodotto e prefigurazione della “pace di Dio”.
Ciò è confermato nel Cantico di frate Sole, composto da Francesco nei mesi successivi all’episodio delle stimmate avute sulla Verna nel settembre del 1224, esattamente ottocento anni fa): “Laudato si’ mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore //et sostengono infirmitate et tribulatione.// Beati quelli kel sosterranno in pace, //ka da Te, Altissimo, sirano incoronati”.
Nel suo Testamento, Francesco scrive: “Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: Il Signore ti dia pace!”. Sin dall’inizio, lui e i suoi frati s’impegnarono in una predicazione di pace, fino a fare di ciò un tratto distintivo della loro scelta di vita, tanto che nella Regola “non bollata” compare il monito di Gesù: “In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa”. Tommaso da Celano ricorda che “il valorosissimo soldato di Cristo, Francesco, passava per città e villaggi annunciando il regno dei cieli, predicando la pace, insegnando la via della salvezza e la penitenza in remissione dei peccati”. Ai suoi frati diceva: “La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori. Non provocate nessuno all’ira o allo scandalo, ma tutti siano attirati alla pace, alla bontà, alla concordia dalla vostra mitezza”.
È nel Prologo del celebre Itinerario della mente a Dio che San Bonaventura di Bagnoregio, settimo ministro generale dell’Ordine francescano, ha raccolto con afflato potente il messaggio di san Francesco relativo alla pace, quando scrive:
“Comincio invocando l’eterno Padre, Primo Principio, Padre dei lumi e datore di ogni bene e di ogni dono perfetto (Gc. 1, 17) dal quale discende su di noi ogni illuminazione perché con la mediazione di Gesù Cristo nostro Signore, e l’intercessione della Vergine Maria madre del medesimo Dio e Signore nostro Gesù Cristo, e del beato Francesco, nostra guida e padre, illumini gli occhi (Ef. 1, 17-18) della nostra mente affinché possiamo dirigere i nostri passi sulla via di quella pace (Lc. 1, 79) che supera ogni intendimento (Gv. 14, 27).
Questa è la pace evangelizzata e donata da nostro Signore Gesù Cristo. Essa fu di nuovo annunciata dal nostro padre Francesco che cominciava e terminava ogni sua predica con la pace, la augurava in ogni suo saluto e in ogni sua preghiera contemplativa sospirava alla pace dell’estasi, proprio come fosse già cittadino di quella Gerusalemme, della quale quell’uomo di pace che era pacifico in mezzo a quelli che odiano la pace, diceva: Invocate la pace per Gerusalemme (Sal. 119, 7). Egli sapeva che il trono di Salomone si fonda sulla pace, come è scritto: Il suo luogo è nella pace, la sua casa in Sion (Sal. 75, 3)”.
Sullo stimolo di queste testimonianze, Dante Alighieri sviluppa il suo pensiero circa l’importanza della pace per il credente cristiano, e lo fa argomentando con cura quando traccia le linee del suo pensiero politico, nel trattato “Sulla Monarchia”, l’unica delle opere minori da lui conclusa (gli altri scritti cosiddetti minori sono rimasti incompiuti), composta in una data compresa tra il 1311 e il 1315.
- La pace nella Monarchia di Dante
In apertura della Monarchia, Dante esplicita una posizione forte circa il tema della pace, assunta dai testi del Nuovo Testamento e riecheggiata, come abbiamo appena visto, negli scritti di Francesco d’Assisi e di san Bonaventura:
“È stato così chiarito sufficientemente che l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica. Siccome nell’uomo singolo avviene che, vivendo in condizioni di calma e di tranquillità, si perfezioni in saggezza e in sapienza, è chiaro che — secondo il detto che ciò che vale per la parte vale per il tutto — anche il genere umano, vivendo nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, può compiere, nel modo più libero e facile, la sua attività specifica che è quasi divina, secondo il detto: «Lo facesti di poco inferiore agli angeli». Di qui appare evidente che la pace universale è il massimo dei beni che sono ordinati alla nostra felicità. Ed è appunto per questo che la voce dall’alto non annunciò ai pastori né ricchezze, né piaceri, né onori, né lunga vita, né salute, né forza, né bellezza, ma pace. Infatti, la milizia celeste cantò: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». Ed è ancora per questo che il Salvatore degli uomini salutava con le parole: «Pace a voi»; si addiceva infatti al Sommo Salvatore usare la massima forma di saluto, della quale poi i suoi discepoli e Paolo vollero conservare l’uso nell’inviare i loro saluti, come tutti possono constatare.
Da queste chiarificazioni risulta quale sia la condizione migliore, anzi ottima, attraverso la quale il genere umano può pervenire alla sua operazione specifica, e di conseguenza si è potuto individuare nella pace universale il mezzo più immediato per giungere a quella felicità cui sono ordinate, come a fine ultimo, tutte le nostre attività; dobbiamo quindi assumere questa pace come principio che sorregge tutti i ragionamenti successivi, principio che era necessario stabilire, come si è detto, quale punto di riferimento prefissato cui ricondurre, come a verità assiomatica, tutte le altre verità che emergeranno dalle nostre dimostrazioni” (Dante, Monarchia, I, 4)
In altri passaggi della Monarchia troviamo affermazioni del medesimo tenore, ad esempio quando afferma che “tra tutti gli altri beni dell’uomo, il più importante è vivere in pace” (Mn I, 11), tema che riprenderemo alla fine. Relativamente agli obiettivi decisivi per la società umana nella sua interezza, Dante afferma che la pace è la condizione migliore perché l’uomo possa raggiungere il fine ultimo, che si consegue non fermandosi ai fini dei singoli individui o delle aggregazioni particolari, ma puntando sulla realizzazione della potenza specifica dell’uomo, che consiste nell’apprendere attraverso l’intelletto possibile. L’intelletto umano per essere sempre attuato nella sua potenzialità di intendere ha bisogno di una molteplicità di uomini che forniscano le rappresentazioni necessarie per passare dalla potenza all’atto; e quando molti elementi sono ordinati a un fine, è necessario che uno di essi assuma il compito di guida o rettore. Da subito Dante esclude che quest’unico rettore possa essere il papa, perché il potere temporale e quello pastorale devono essere distinti: da Dio, unica fonte dell’autorità, derivano l’autorità spirituale e quella temporale, perché i compiti del pastore delle anime e quelli del governatore politico sono in relazione a due fini distinti, raccordabili ai due livelli di felicità cui l’uomo tende, quella eterna e quella terrena. Il fine naturale dell’umanità, quello di esplicare al massimo la potenza intellettiva, contribuisce a realizzare la felicità sulla terra, nella vita organizzata politicamente, guidata dalla monarchia universale, un istituto politico capace di garantire una duratura pace perché non legato a interessi territoriali o economici, e con una potenza legislativa capace di elaborare i princìpi universali del diritto. Il monarca universale è da configurare come derivato dalla figura dell’Imperatore dei romani, di cui, nel secondo libro dell’opera, Dante tratta in modo articolato, per concludere che fu con il rispetto del diritto che il popolo romano attribuì a sé il compito di monarca. Tra le molte argomentazioni a favore di questa tesi, spiccano quelle in cui Dante sostiene che il popolo romano conquistò l’impero secondo la volontà di Dio, anche sulla base dei molti episodi miracolosi raccontati dagli autori antichi, e i miracoli sono eventi che derivano da un’azione divina in deroga alle leggi di natura. Dante delinea una modalità di convivenza umana che chiama impero, e, in quanto “corporazione degli uomini”, si presenta con una identità e un fine da realizzare che la distinguono dalla struttura e dai fini della “corporazione dei credenti”, e che trova nel monarca un minister omnium, un amministratore del potere nel nome di tutti. In queste tesi emerge la preoccupazione dell’Alighieri relativamente alla situazione politica del suo tempo, e voleva fare chiarezza circa la conflittualità tra la chiesa e gli stati particolari; resta comunque sempre sottinteso il suo obiettivo, quello di configurare una governance ecclesiastica e politica che assuma come primo valore per l’umanità la pace. Dante precisa che questa è garantita dal monarca in quanto è un effetto della giustizia e della carità, che egli deve possedere in massimo grado: “Dato che fra tutti gli altri beni dell’uomo il più importante è vivere in pace, e di questo in massimo grado è causa la giustizia, la carità soprattutto rafforzerà la giustizia” (Mn I, 11). Realizzata storicamente sotto Augusto, la pace è stata profeticamente affidata ai Romani, come hanno attestato storici, poeti (soprattutto Virgilio) e i testi neotestamentari. Per ben tre volte, nel testo, Dante sottolinea anche linguisticamente il collegamento fra pax e libertas, un collegamento di carattere intellettuale, il cui termine medio è la conoscenza, che viene garantita dalla pace e a sua volta assicura la libertà. L’esercizio delle caratteristiche proprie dell’uomo, e non solo del cristiano, è affidato alla condizione che si persegua la pace, perché si possa potenziare l’attività della ragione pensante e sia attivata la libertà in cui a ogni persona è dato di riconoscersi artefice della propria felicità.