di Marina Zaoli

Forse l’immagine reale del femminile originario, che in sé diventa simbolo, e quindi rappresentativa, è un monumento sacro, scavato in una nicchia di pietra, che si trova in Cina, ai confini del Tibet, nella regione dello Yunnan (yun = nuvola, nan =  sud). Rappresenta una vulva appoggiata su di un gambo di fiore di loto, ed è il simbolo della vita che nasce. Ciò che accoglie, che contiene, che nutre, che libera, che accompagna, che fa crescere. Ma ancora prima, ciò che crea desiderio.La zona in cui si trova questa antica immagine sacra è abitata dalla etnia Bai, una delle ultime etnie che derivano da culture di tipo matrilineare, di cui ne esiste ancora una, oggi, l’ultima rimasta, nella stessa zona, rappresentata dal popolo dei Mosuo. Ed è una evenienza veramente preziosa poter verificare ancora oggi, per un’ ultima volta, la memoria di una società di questo tipo, ormai scomparsa da millenni. Il turismo che sta arrivando fin là, ha infatti già iniziato a creare i primi scompensi di tipo socio-economico. Questo perché fino ad ora la vita si era svolta con ritmi assolutamente naturali, mentre adesso si sono iniziate ad affittare stanze, ad aprire piccoli punti di ristoro e, inevitabilmente, le zone più panoramiche o più vicine al lago hanno avuto più successo delle altre.

Il motivo per cui i Mosuo sono rimasti una popolazione dedita prevalentemente all’agricoltura e con carattere matriarcale e matrilineare, dipende dalla collocazione geografica del loro territorio, che è incapsulato in una zona montana, alla fine di una strada che porta al lago Lugu, che, non a caso, significa Lago Madre, ed è a 7 ore di auto dal villaggio Naxi più vicino. Anche i Naxi erano una popolazione matriarcale fino a qualche secolo fa, ma poi la maggior vicinanza con l’Impero cinese, li ha costretti ad assumere caratteristiche di tipo patriarcale, anche se la situazione dei cognomi è ancora molto incerta e, a volte, si notano, o esistono tuttora, derivazioni matrilineari. I Mosuo abitano a 2700 metri di altitudine, ai piedi dell’Himalaya, ai confini col Tibet, e sono sempre rimasti ai margini di quello che è stato l’Impero cinese. Vivono di agricoltura e di pesca. E’ come se  fossero rimasti cristallizzati, nei loro comportamenti, dall’inizio della storia umana.

Lì, al contrario che in quasi tutto il resto del mondo, non occidentalizzato, nascere donna è una fortuna. Il villaggio, così come ogni singola famiglia, è retto da una Dabu (donna anziana e saggia che è stata scelta, tra le possibili candidate più giovani, dalla Dabu precedente, per le sue capacità di cura, di amore, di gestione della casa e dei piccoli). A volte la Dabu può essere affiancata da un’altra Dabu,  per reggere insieme una famiglia, ed esse non litigano.

I bambini che nascono, generalmente due per ogni donna, ma anche meno, in quanto la loro filosofia è di averne solo il numero che si può accudire e tenere al meglio, rimangono per i primi tre anni con la madre, poi vengono dati alla Dabu, la capofamiglia della propria famiglia, e dormono con lei, nella sua camera e nella sua casa.

La madre viene però riconosciuta come madre naturale e tutte le donne, ancor più le sorelle della madre, aiutano nella gestione familiare e nei compiti materni.

La figura paterna è rappresentata dal fratello della madre, che si occupa, al bisogno, dei piccoli. Il padre naturale non è considerato consanguineo (appartiene ed è legato solo alla famiglia materna), ma viene riconosciuto dai suoi figli, anche se non abita con loro. Rimarrà sempre a vivere nella casa della propria madre, insieme alle sorelle e ai figli di queste, a cui farà da padre.

Quando una bambina arriva ai 13 anni le viene dato il costume tradizionale e la chiave della “camera dei fiori”. Da questo momento può scegliersi un innamorato, portarlo in questa camera tutte le notti ed amarlo in maniera libera. Se la coppia diventa stabile, l’innamorato verrà presentato alla famiglia e diventerà il suo compagno ufficiale, fino a che la storia non finisce. I Mosuo infatti non contemplano il matrimonio, né un’unione duratura, in quanto pensano che l’amore sia un sentimento troppo fragile e prezioso per poterlo imbrigliare. C’è in questa usanza, però, forse anche la praticità e la consapevolezza di star meglio con la propria madre, piuttosto che con la suocera. Si pensi all’India, dove le spose prescelte (e bambine) vengono portate a casa del futuro marito già dai 3 – 4 anni di età per essere educate dalla madre di lui ai dettami di quella famiglia e alle abitudini  di quella casa, che è comunque quella in cui dovranno vivere.

La casa mosuo generalmente è composta di tre stanze: la principale con delle panche basse e il focolare sempre acceso, che è quella della Dabu. Qui si ricevono gli ospiti e vi dormono i piccoli; c’è poi un’altra camera per dormire, e un’ultima camera, detta la “camera dei misteri” in cui si portano le donne a partorire e gli anziani a morire.

La società è permeata di religiosità, le donne pregano anche per strada e sul lavoro. Ci sono però uomini consacrati alla preghiera e una sorta di sacerdote, che è il maschile della Dabu capo-villaggio, che svolge i riti, ma in particolare è chiamato a togliere stregonerie e malocchio alle donne.

In questa società non ci sono, almeno fino ad ora, rivalità, infedeltà, violenza domestica. Non esiste il possesso, tutto è in comune, perfino gli uomini, che vengono tenuti solo fino a che durano la passione e l’amore, e sono quindi molto coinvolti anch’essi, e poi vengono lasciati andare via.

Un esempio di questo genere è importantissimo per comprendere al meglio come erano le società umane dell’inizio e come la figura femminile, il femminino così ben descritto anche da Teilhard, abbia queste caratteristiche di cura, di accoglienza, di amore gratuito ed universale, di trascinamento verso la vita, verso il divenire, verso la creazione, verso Dio.

Quando un uomo ama una donna, egli pensa all’inizio che il suo amore sia rivolto ad un individuo come lui. Molto presto però è preso da stupore…. Pensava di trovare vicino a sé solo una compagna : si accorge invece che in Me è a contatto con la grande Forza segreta, la misteriosa Latenza – venuta in questa forma per trascinarlo. Chi mi ha trovato è sulla soglia di tutte le cose. Non solo con l’intermediazione della sua sensibilità, ma per le connessioni fisiche della mia stessa natura, io mi prolungo nell’anima del Mondo… Sono io l’accesso al cuore globale della creazione.” [1]

Le donne non solo amano un uomo, ma ancor di più, quando lo amano profondamente, sanno, sentono di avere il potere di replicare la vita, la sua stessa vita nel tempo, e desiderano farlo oltre ogni altra cosa. Hanno il potere della creazione e lo sanno. E così prendono gli uomini per mano e dissolvono la paura dell’ignoto, del buttarsi in un’impresa che sembrerebbe impossibile.

D’altra parte, poi, come dimenticare che la mutazione genetica che dalla scimmia ha creato il primo ominide è stato trovato in Africa in un esemplare di sesso femminile?

L’Eva nera, l’origine.

Il suo ritrovamento, che la data intorno a 180 – 200.000 anni fa ci racconta la storia di un essere che ha cominciato a differenziarsi da una struttura puramente biologica, fisica, in un individuo con una, seppur iniziale, capacità di psichismo. Forse non ancora compiutamente, ma di certo il cambiamento di messaggi che si è prodotto, nel passaggio dai segnali visivi e olfattivi dell’estro delle scimmie, alla comparsa di un ciclo mensile di riproduzione e di un seno permanente, ha, seppur lentamente, portato a trasformare la primitiva, semplice pulsione sessuale, nella costruzione di sentimenti, di una attrazione, non più solo chimica, ma scaturita da legami di simpatia, di affetto e di amore. Il comportamento è stato non più solo biologico e ‘obbligato’, ma ‘psicologicamente’ sentito e scelto.

Con la vita ho cominciato ad incarnarmi in esseri che sceglievo perché erano particolarmente a mia immagine.”[2]

La figura femminile dell’inizio era veramente l’origine, si confondeva con la vita stessa. La vita degli esseri che popolavano la terra, prima, e anche di tutti i vegetali, poi. In un secondo tempo diventa infatti anche la terra madre che racchiude nel suo ventre il seme che porta a una nuova pianta, a nuova vita (da Pacha Mama a Cerere ecc.).

Se pensiamo che era da una donna che veniva generata l’intera popolazione, maschile e femminile, che il tempo di vita era assai breve, che non si conosceva il nesso tra nascita e rapporti sessuali, possiamo ben arrivare a capire come la magia del corpo femminile fosse totalizzante.

Gli studi archeologici ci indicano che in origine la società era di tipo matriarcale, confermando così che, come per gli altri mammiferi, i nuovi nati erano curati e passavano un lungo periodo solo, o prevalentemente, con le madri (come dicevamo il tempo medio di vita era molto breve) e che la socialità si estrinsecava all’interno del gruppo madre + figli: evenienza che ha destinato per molti millenni la figura femminile ad essere la principale figura di riferimento, anche nelle immagini delle divinità.

Non a caso infatti le prime divinità conosciute della storia umana rappresentano sempre, in ogni parte del mondo le dee madri.

Dee madri raffigurate con vistosi attributi femminili, dee del parto, con il piccolo che sta uscendo tra le loro gambe.

Prima ancora c’era l’acqua, la nebbia, l’ambiente intorno.

“Gradualmente mi sono individualizzata […] via via che le anime diventano suscettibili di un’unione più ricca, più profonda, più spiritualizzata.”[3]

All’inizio una vera coscienza ancora non c’era, vi era solo pulsione alla vita, cioè al movimento e alla soddisfazione dei bisogni, in assenza di qualunque confine, di qualunque realtà. Tutto era indeterminato e indifferenziato, tutto poteva essere e trasformarsi in qualsiasi cosa.

Prima dell’inizio della storia, l’uomo vive in uno stato di anonimato informe […] Perciò il tempo anteriore alla storia è l’indeterminato, il caos, l’indifferenziato. Il corrispettivo sul piano religioso di questa psiche amorfa è il numinoso indeterminato, il sostrato attivo primordiale, la matrice da cui si cristallizzeranno in seguito il “Divino” e gli dei.” [4]

Ma una cosa certa c’era, o c’era stata all’inizio della vita di ognuno. Un corpo che accoglieva, un seno che nutriva.

La madre, la figura femminile porta quindi la vita, la capacità di generare, dentro di sé, ma allo stesso modo porta il nutrimento, quindi ancora protezione e salvezza.

Il latte aveva nelle culture primitive un forte potere di purificazione, di salvezza, di rinascita.

In Irlanda, in un’area di culto celtico, si trovanodue colline vicine, che venivano chiamate i ‘capezzoli di Anu’, in onore di una antica madre di tutti gli dei. Anche i celti infatti veneravano divinità in prevalenza femminili, e le basi culturali, tra cui l’arte medica, la botanica, l’agricoltura, le profezie, erano detenute dalle donne.

Il corpo femminile era magico e sacro.

Anche il latte, quindi, in tutte le sue molteplici immagini ha sempre significato di vita.

Fino a poco tempo fa si poteva ancora trovare la documentazione, anche nelle nostre zone, di come la cultura popolare desse valore taumaturgico, proprietà di guarigione al latte materno. Le otiti (dolorosissime) dei bambini venivano curate inserendo all’interno del condotto uditivo, il latte di una donna che stesse allattando.

Nella cultura romana c’era un rito, detto dei Lupercalia[5] in cui il sangue con cui veniva tinta la fronte dei giovinetti ed era un simbolo di morte, veniva deterso con il latte che rappresentava invece la vita. Un simile significato lo ritroviamo anche nel racconto di un mito egizio in cui è il latte che risana magicamente gli occhi di Horus che gli erano stati strappati da Seth.

Anche il sangue mestruale, che è ciclico, è legato alla magia del corpo femminile, come il latte e l’acqua, ed è l’unico sangue che rappresenta la vita e non la morte.

Il cielo rosso dell’aurora, era visualizzato dagli antichi come il sangue del parto per la nascita del sole, così come il cielo infuocato del tramonto aveva significati di rinascita: il rosso disco solare tramontava a ovest, per poi risorgere a est, la mattina dopo, e il rosso del tramonto, che era come il rosso dell’aurora era una sorta di garanzia del ciclico ritorno.

Allo stesso modo, nei riti funebri e nei sacrifici, il colore prevalentemente usato era il rosso, che, rappresentando il sangue del parto, richiamava ad una nuova vita.

Anche l’acqua era uno dei più potenti simbolismi che accompagnavano il femminile, probabilmente l’archetipo femminile per eccellenza. L’acqua del parto, l’acqua del sacco amniotico che protegge e avvolge completamente il bambino e che lo aiuta a nascere, l’acqua che disseta, come il latte, che purifica, che lava, che cura e risana le ferite. L’acqua e il vapore, memoria del numinoso indifferenziato, della pre-vita, della pre-coscienza, del tempo dell’onnipotenza e del sogno, della permanenza nel corpo accogliente e protettivo della madre.

L’acqua rappresenta l’inizio, la fonte primaria, la profondità dell’inconscio. E’ l’oceano tiepido primordiale in cui si sono create le prime forme di vita. E’ la profondità dei laghi e delle torbiere nei cui pressi compivano sacrifici i popoli del nord.

Un altro antico simbolo che rappresenta il materno-femminile è l’Uroboros, a cui anche Jung ci rimanda, con i suoi studi in proposito. E’ questa un’immagine egiziana che raffigura un drago che si morde la coda ed è ermafrodita e pre-sessuale, esattamente ciò che il bambino pensa della madre e del mondo nella prima fase della vita. Il suo significato è il flusso del nutrimento. Non presenta tensioni polari dentro di sé, né c’è ancora la separazione nei due sessi. Infatti, come ha potuto appurare M. Klein, ogni neonato sperimenta una simile immagine iniziale di riferimento: la madre che contiene il padre, inglobato al suo interno.

Non essendoci inoltre ancora, in questo stadio di sviluppo, un’autopercezione, e la possibilità di registrare e memorizzare, di differenziare le reazioni piacere-dolore, ciò che viene sperimentato è una forma di autarchia e di autosufficienza che rasenta l’onnipotenza e la perfezione. Il mondo esperito in questa situazione è magico, numinoso e pleromatico, si vive in uno stato di mancanza di confini e senza alcun tipo di coscienza, quel che fu definito da Levi-BruhlParticipation mystique”. Il suo archetipo corrisponde alla grande-madre.

Anche la spirale e il labirinto, le antiche grotte, cattedrali cultuali delle epoche preistoriche, rappresentano il corpo della madre, un punto sicuro in cui sostare, in cui pregare, in cui chiedere, per essere ascoltati.

Il femminile quindi, è sempre stato, così come è ora, paziente, accogliente, protettivo.

Nei casi di separazione, quante sono, in percentuale, le madri che si prendono cura e fanno crescere i figli, senza abbandonarli, rispetto ai padri? Quante sono le donne, in confronto agli uomini che accolgono una vita che nasce, sempre, a priori, senza considerare le difficoltà, senza considerare che è loro il corpo che dovrà sorreggere ed affrontare ogni evento?

Quanto, in una situazione di convivenza in gruppi maschili, rispetto a quelli femminili avremo dei contrasti forti, delle prevaricazioni, delle azioni violente?

E’ chiaro che ogni sesso è stato creato per un suo compito ben preciso. Le donne devono accogliere, nutrire, costruire, gli uomini difendere, misurare, agire.

“La donna porta, in un tempo fissato,

vita e morte racchiuse nel suo ventre,

l’uomo le porta indissolubilmente

legate agli occhi, alle mani e alle braccia,

la tribù muore quando non si caccia.”[6]

O, come dice un vecchio proverbio: con una donna c’è sempre un amore, con un uomo c’è sempre una guerra.

Ma così come la figura materna, femminile, aveva il potere della vita, ugualmente, specularmente, con il percorrere del tempo, acquisisce, nell’immaginario umano, che si va formando, il potere della morte. Morte che era prevalentemente rappresentata, esperita, nel non riuscire a individuarsi da parte del figlio, che teme di rimanere imprigionato, imbrigliato all’interno della madre, di non riuscire ad esistere di vita propria.

Si può ricordare, a questo proposito,  una antica leggenda della mitologia nordamericana che narra di uno sciamano, Old Man, il quale creò col fango prima gli animali e poi una donna e un bambino,[7] ma non poté creare l’immortalità proprio per colpa di questa donna. Ella chiese infatti a Old Man, mentre si trovavano sulla riva di un fiume, se la vita sarebbe stata eterna. L’uomo rispose che non ci aveva ancora pensato, ma che avrebbe preso questa decisione dopo aver buttato un pezzo di sterco nell’acqua. Se questo avesse galleggiato, gli uomini sarebbero morti solo per quattro giorni, dopo di che avrebbero potuto rivivere, altrimenti sarebbero morti  per sempre. Lo sterco galleggiò, ma la donna non fu contenta e prese una pietra, annunciando che se fosse affondata gli uomini sarebbero morti, anche se morendo avrebbero provato pena, dolore e compassione gli uni per gli altri e la tirò. La pietra affondò ed è a causa di questo che la colpa della morte dipese dalla donna.

Si può osservare molto bene, in questa narrazione, come il bisogno di autonomizzarsi nei confronti della madre e, ancora più potentemente, delle divinità matriarcali, porti a esprimere un’autogenerazione maschile. Gli uomini, che non si erano mai potuti identificare nella creatività materna e femminile, ed avevano anzi dovuto obbedire, come figli, sono ora decisi a prendere il sopravvento. Il passaggio, però, non è facile, né indolore, e vengono qui evidenziati i danni rilevati nel rapportarsi maschile-femminile, ma più che altro il rifiuto del senso di impotenza e di sudditanza subiti dagli uomini e provocati dall’essersi fatti gestire e manipolare da figure femminili, in precedenza, incolpandole però, contemporaneamente, di essere stati abbandonati, abbandono (materno) che ha sempre significato di morte.

In ogni mitologia sono figure femminili le tessitrici della vita e della morte, le padrone del tempo, nell’immaginario del primitivo, così come in quello del bambino, ed è sempre sulla donna che viene scaricata la colpa del peccato originale, perché è su di lei che vengono proiettati i propri bisogni di autonomia e viene vissuta come sua la colpa di aver fatto terminare lo stato simbiotico, perfetto e pleromatico dell’inizio.

Si riscontra inoltre in questa leggenda, sebbene ormai travisata, insieme al racconto della creazione anche quello della vita dopo la morte e della possibilità di rinascita. Vi troviamo, infatti, come in molti altri miti, una discesa agli inferi per un certo periodo (i quattro giorni di morte), prima dell’inizio della vera vita.[8]

Nella storia di ogni popolo della terra possiamo constatare come, all’avvento del patriarcato, le divinità maschili vengono fatte nascere dalle più antiche divinità femminili. Ma vedremo anche come non c’è nulla di simile alla figura di Maria, che si differenzia da tutto il resto, non ripete alcuna altra mitologia, ma è vera storia.

Dal momento infatti in cui nasce il patriarcato, dall’uscita da quella sensazione di indeterminazione soffocante del figlio nei confronti della madre, che vediamo sorgere ad un certo punto della storia, quando gli appartenenti al sesso maschile si affrancheranno dalla figura materna e prenderanno il sopravento, assistiamo alla nascita delle prime divinità maschili. E tutte nasceranno da una dea madre dell’inizio, come Larth, il re sacro degli etruschi, figlio della dea madre Uni, detentore del potere supremo e prima autorità assoluta, da cui discendevano anche i Lari.

Uni, madre di tutti gli dei, da cui derivò la romana Iuno, Giunone, era la prima, l’unica, l’origine, la grande madre degli etruschi, la genitrice universale, la protettrice delle partorienti, la dispensatrice del potere materno e nutritivo destinato alle creature viventi per la loro prosperità e crescita.

Così era Atum per gli egiziani. Atum era l’unico figlio generato da Nun (divinità femminile che rappresentava l’acqua primordiale e oscura della non-esistenza, ciò che era prima della creazione, la dea madre totalizzante dell’inizio). Atum era associato alla terra, in quanto nato da una collinetta sorta dalle acque, ed era padre di tutti gli altri dei. La sua mano era a propria volta una divinità, la madre della creazione, e le fu dato l’appellativo di “la madre che è padre”.

Gli uomini prendono potere e soppravvento sulle donne, creano divinità maschili, ma dietro, dentro ad esse si trovano ancora quelle femminili. Il potere terribile, segreto e legato all’acqua della divinità femminile, infatti, non sparirà mai completamente e continuerà ad esistere, rappresentato da un lago sacro, spesso presente nei luoghi di culto. Molto interessante, a questo proposito la credenza, che portava al timore, sempre vivo negli egizi, che ad un certo punto Nun, che dopo la creazione non era scomparsa, ma aveva circondato il firmamento celeste e custodiva il sole, la luna, il cielo e la terra, nonché i confini dell’oltretomba, potesse spezzare il cielo e cadere giù, devastando il mondo.

La memoria di questa divinità egiziana esprime nel modo più chiaro l’immagine delle primitive divinità femminili, identificate con l’acqua, il vapore, ecc., che continuano ad esistere anche dopo l’avvento delle nuove divinità patriarcali come una madre che tutto avvolge, ormai  superata, ma ancora potentissima. Sembrerebbe, a questo punto, che la paura del loro potere e della loro totalità, rimanga per il senso di colpa degli uomini che si sono appropriati con la forza del primitivo potere delle donne.

Un’altra documentazione di questo passaggio e della sua violenza ci deriva da uno studio di Fromm sulla trilogia di Sofocle, in particolare in quella dell’ultimo libro. La sua analisi ci mostra che la lotta contro l’autorità paterna ne costituisce il fulcro e che questa ribellione affonda le sue radici nell’antico conflitto fra il sistema di società patriarcale e quello matriarcale. Edipo, come Emone e Antigone, rappresenta il principio matriarcale; essi si ribellano a un ordine sociale e religioso basato sui poteri e sui privilegi del padre, incarnato da Laio e da Creonte.

Il conflitto tra i due principi si sviluppa ulteriormente nel corso della tragedia. Antigone insiste sul fatto che le leggi cui ella obbedisce non sono quelle degli dei olimpici: “Poichè non è da oggi, non da ieri, che esse vivono: eterne sono e a tutti ignoto il tempo in cui furon sancite”; e, possiamo aggiungere, la legge della sepoltura, del ritorno del corpo alla Madre Terra, è radicata proprio nella religione matriarcale. Antigone rappresenta la solidarietà umana e il principio dell’amore materno che tutto abbraccia…….Per Creonte l’ossequio all’autorità è il valore supremo……..Autorità nella famiglia e autorità nello stato sono i due supremi valori interdipendenti sostenuti da Creonte. I figli sono proprietà dei padri e la loro funzione è quella di “essere utili” al padre. La “patria potestas” nella famiglia è la base del potere del sovrano nello stato; i cittadini sono proprietà dello stato e del suo sovrano, e “l’indisciplina è il più grande dei mali.”……….I due principi sono stati ora messi a fuoco con la massima chiarezza, e la conclusione della tragedia conduce semplicemente l’azione al punto della decisione finale. Creonte fa seppellire viva Antigone in una caverna – di nuovo un’espressione simbolica del suo legame con le dee della terra.”[9]

Non si può più sottostare al potere materno e femminile. E’ questo il motivo per cui Adamo viene punito, ed Eva con lui. Ma è Adamo che ha assecondato la curiosità di Eva, il suo accondiscendere ai malvagi dettami del serpente. Non si è dimostrato degno della fiducia del Signore, ha preferito seguire il consiglio di una donna, colei che fino ad allora aveva avuto il potere assoluto e, ancora una volta, prova a irretirlo con i suoi mezzi di seduzione, legati alla terra e non al cielo, legati agli istinti, ai desideri sessuali e materiali e non a quelli di fedeltà al padre, che sono tipici e fondamentali in un regime patriarcale.

E’ da questo punto che l’uomo ha creato le due immagini dicotomiche del femminile che rimane legato alla terra, alla sessualità, all’attesa, e del maschile che si innalza verso il cielo, l’intelletto, la conquista di nuovi spazi.

Ma  resterà sempre la donna che collegherà l’umano al divino, che farà da ponte tra terra e cielo. Resterà sempre la donna che donerà la vita ai figli e li farà crescere, sacrificando il suo tempo per regalare a loro il tempo in cui vivere. E sarà la donna che resterà padrona del tempo, con il suo corpo che lo scandisce inesorabilmente.

Come spiega Jaqueline Barthes in un suo interessante articolo “Abbiamo scoperto le sorprendenti connessioni delle donne con l’universo, col tempo, con ciò che ci supera, […] abbiamo scoperto una predisposizione “strutturale” all’amore nella sua versione del “dono di sé”, una solidarietà non solo con l’universo, ma anche con ciò che ci attira, pur restando per noi fondamentalmente misterioso. E questo fonda in lei l’incapacità di separare le due dimensioni del nostro essere, la sua dimensione corporea e la sua dimensione spirituale.”  [10]

In questa stessa accezione del femminile ecco che ci appare la figura di Maria.

Maria accondiscende, accoglie. Non si spaventa quando l’angelo le parla. Lei già sa, già sente che nel suo corpo si sta formando una nuova vita e lei già la ama. Non ha paura.

Farà crescere il figlio sapendo che non è suo, che lei è solo un tramite tra cielo e terra, tra divino e umano, convincerà Giuseppe, e Giuseppe crederà perché sente che è verità quello che lei dice.

L’immagine del femminile, del femminino come direbbe Teilhard è questa, e rimane nei secoli, nei millenni. E’ la stessa che ancora oggi ritroviamo, forse appena un po’ modificata nelle nuovissime generazioni, in cui i ruoli maschile e femminile sono più interscambiabili.

Ma fino a quando sarà il corpo di una donna che accoglierà la nuova vita e suo compito sarà il farla crescere e nutrire, queste caratteristiche rimarranno.

D’altra parte, anche negli odierni riferimenti figurativi, ogni immagine di Madonna col bambino, non è di nuovo il simbolo dell’offerta di sé, del proprio corpo per l’altro, dell’attesa dei bisogni altrui, del sapersi identificare, per comprendere le necessità del figlio?

E Maria non è una divinità, è una semplice, umile fanciulla. Nessuno la conosce. Solo Dio la vede e la sceglie per le sue doti di umiltà, di fede e di accondiscendenza.

Per ben tre volte, nel Vangelo di Luca, troviamo questa frase, dolcissima ed estremamente significativa: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore.” (Lc 2,19 – 1,66 – 2,51)

Maria è una donna, umana, che accoglie un figlio umano, sapendo però che è figlio di Dio. Si spaventa, certo, ma crede, accoglie e si fa forza, aspettando quello che dovrà accadere. Rimane nell’ombra, ma è un riferimento importantissimo, specialmente per Gesù fanciullo.

Immagine potente di quel femminino che travalica i tempi e che ci porta a Dio.

Posta fra Dio e la terra, come un luogo di attrazione comune, io li faccio venire l’uno verso l’altro appassionatamente….finchè in me abbia luogo l’incontro in cui si consumano la nascita e la pienezza di Cristo, attraverso i secoli. […] Sono l’Eterno Femminino.”[11]

E ben sappiamo e abbiamo documentazioni certe di come sia tuttora la figura materna che principalmente e inizialmente avvicina i figli al bisogno di trascendenza, alla ricerca e conoscenza di Dio. Se la madre insegna a pregare, insegna a fidarsi, a credere in Gesù e nel suo amore, nei figli rimarrà il rapporto con la preghiera e con Dio per tutta la vita. Ci saranno momenti di allontanamento o di rifiuto, ma quel nutrimento dato insieme al latte e all’amore materno, tangibile e presente, sarà un buon rifugio, una buona risorsa e una buona speranza per l’arco dell’intera esistenza.

E’ il femminile, quindi, che non solo accoglie, ma è in grado di insegnare, motivare, comprendere, forse anche di presagire (una sensibilità in più riconosciuta da tutti). Nel Vangelo  di Matteo (Matteo, 28,20) le prime a venire a conoscenza della resurrezione sono le due Marie, che si erano recate al sepolcro. E’ la loro fedeltà, la loro presenza umile, accondiscendente, silenziosa, ma assolutamente costante, che non viene mai meno, ad essere premiata con le parole dell’angelo. “Non abbiate paura voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. E’ risorto come aveva detto; venite a vedere….”

Per questo Maria di Magdala nel medioevo era detta ‘apostola degli apostoli’, perché, insieme all’altra Maria, era presso il sepolcro all’arrivo dell’angelo e l’aveva visto per prima, e a lei l’angelo aveva parlato. Era stata la prima a sapere. A sapere del Risorto. A constatare che il sepolcro era vuoto.

E’ a lei che l’angelo annuncia la grande gioia, è lei che viene invitata a correre dagli altri apostoli ad annunciare la resurrezione.


[1] P. Teilhard de Chardin, Le direzioni del futuro, SEI, Torino, 1996, pag. 83

[2] Ibid., pag. 84

[3] Ibid., pag. 84

[4]Neumann E. , Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma, 1978 (Zurigo 1949), pag. 55

Come se la materia prima di potersi ‘psichizzare’, ‘riflettere’, sentisse, avesse una sorta di memoria sia del nulla, del caos da cui era stata tratta, sia da Colui, dalla Forza che l’aveva organizzata e la stava rendendo consapevole.

[5]Calvetti A. Alle origine di miti, fiabe e leggende. Teoderico e altri protagonisti, Longo, Ravenna, 1995

[6] M. Zani, Vivendo vita, MEF, Firenze, 2006

[7] Sul significato cristiano dell’evoluzione e delle similitudini di miti e leggende in tutti i popoli della terra, cfr. M. Zaoli, “Un apporto psicologico alla teoria di Pierre Teilhard de Chardin”, Teilhard aujourd’hui, Quaderni, Torino 2014,  M. Zaoli, Dalla fiaba al rito dal mito all’inconscio, Panozzo, Rimini, 2002

[8] Anche su questo, cfr. M. Zaoli, Dalla fiaba al rito dal mito all’inconscio, Panozzo, Rimini, 2002, in cui viene evidenziato come sembra che l’inconscio già ‘sappia’ per quale destino siamo stati scelti (cfr. San Paolo), come se l’alito di vita del soffio divino (Genesi 2,7) ricevuto all’inizio mantenesse dentro la materia una memoria del suo passato e del suo futuro.

[9] Fromm E., Il linguaggio dimenticato, Bompiani, pag.192

[10]Jaqueline Barthes, A proposito del mistero femminile, Teilhard auojurd’hui 14 – febbraio 2014, pag. 49

[11] P. Teilhard de Chardin, Le direzioni del futuro, SEI, Torino, 1996, pag. 85

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