Parole che fanno

di Nicoletta Amodio
A cura di Nicoletta Amodio

Nel suo saggio*, Vittorio Pelligra, Professore di Politica Economica all’Università di Cagliari, ci fa strada attraverso le dinamiche nascoste che condizionano la comunicazione pubblica, ma anche il nostro giudizio critico, i nostri orientamenti e, dunque, il nostro agire. Lo scritto si struttura in ventitré capitoli, corrispondenti ad altrettante ventitré parole topiche, che rimandano alle variegate dimensioni della nostra facoltà percipiente e ne influenzano il senso che attribuiamo loro, nonché la modalità di contestualizzazione e valorizzazione. L’argomentazione analitica prende le mosse dal riferimento all’economia comportamentale quale disciplina economica nata una trentina d’anni fa dall’incontro tra la psicologia cognitiva e l’economia. Pelligra lascia intendere che gli economisti abbiano cominciato ad importare delle idee dalla psicologia cognitiva nei loro modelli revisionali, in particolare in quelli di scelta, perché si sono resi conto che le assunzioni tradizionali dei pattern di razionalità risultassero in previsioni puntualmente false. Hanno perciò cercato un po’ intorno, nelle discipline “cugine” – psicologia, sociologia e antropologia – ulteriori intuizioni e hanno allargato e costruito un modello di agente e di decisore più complesso e adeguato dal punto di vista descrittivo, in grado di prevedere meglio la complessità dell’azione umana. In tal modo, si sono sviluppati vari filoni di ricerca, sia per quanto riguarda le scelte individuali, sia per quanto concerne le scelte sociali e collettive. Viviamo l’era dell’attenzione limitata e della stanchezza cronica nei confronti delle sovrabbondanti informazioni che riceviamo; tutto ciò ci rende oltremodo vulnerabili e si traduce in fenomeni non solo individuali, ma anche macrosociali di violenza e irruenza espressive, che implicano la spasmodica ricerca di soli bias della conferma, non già di confronti produttivi e altresì capacità di ascolto. L’esito è, inevitabilmente, quello di una pseudo-comunicazione, parziale, viziata, asfittica. In questo contesto già così coartato, trova ulteriore terreno fertile l’uso distorto dei social, che sfruttano in maniera parossistica le debolezze del sistema comunicativo e di sostanziale povertà decodificativa del singolo. Le informazioni che si ricevono devono spingere a restare “connessi”, ma isolati il più possibile, impegnati, ma di fatto anestetizzati e completamente proni ad ogni sorta di stimolazione e induzione di bisogni che ancora devono essere espressi e materializzati. Di continuo, una volta entrati in tale dinamica tossica, vengono inviate tramite i potenti canali della dis-comunicazione informazioni che ci piacciono, che allettano i nostri gusti e sensi, cosicché noi rilasciamo una gran quantità di nostre tracce e diventiamo, a nostra volta, moltiplicatori di queste relazioni. Così, stabilito ormai un rapporto di dipendenza confidenziale con entità che, di fatto, mai sono in carne ed ossa né si concretizzano fisicamente, si formano vere e proprie reti di esseri virtuali che condividono gli stessi interessi, le stesse credenze e preferenze, fino a rafforzarsi a vicenda e creare polarizzazioni sociali. Si viene a definire, in tal modo, una sorta di opposizione/parallelismo – pur se vogliamo anacronistici – tra il modello proposto da Wittgenstein, secondo il quale i limiti del nostro linguaggio siano i confini del nostro mondo, e Aristotele, che si chiedeva se la sete di conoscenza potesse, non senza sarcasmo, porsi quale valido rimedio all’ignoranza. Evidentemente, il secondo non aveva ancora davanti a sé la prospettiva complessa e, per molti versi, travisata che abbiamo noi oggi dei concetti di “conoscenza” e “competenza”, quindi interpretava tout court in termini positivi perlomeno lo stimolo alla conoscenza. Per Wittgenstein, figlio di un tempo maggiormente prossimo a noi, la risposta era più netta e marcata e lasciava con nettezza presagire il limen fra le due dovesse essere ben definito. All’interno del libro in questione, poi, si affronta anche il tema, assai cogente oggi, della sovrastima che caratterizza i nostri processi critici e interpretativi della realtà: infatti, dice l’autore, si tende a sovrastimare fenomeni che hanno una bassa incidenza e, per converso, a sottostimare quelli che ne hanno una alta. Allora, qual è il problema legato a questo sistematico disallineamento? Ecco che Pelligra prende in esame il consenso politico e illustra quanto esso si costruisca intercettando quelli che sono i desiderata degli elettori; pertanto, siccome questi sono sistematicamente influenzati da tali percezioni traviate e difformi dal dato reale, si propongono linee di azione che sono strutturate non sulla realtà, appunto, bensì sulla percezione. Orbene, la politica rincorre le percezioni errate degli elettori e non la realtà dei fenomeni e ciò non fa che acuire i rischi già insiti i tutti i populismi, che traggono la propria linfa proprio dal fenomeno dell’overloading, ossia sovraccarico informativo, sostanzialmente errato e non filtrato. Un altro aspetto assai rilevante riguarda ciò che l’autore dice riguardo alla nostra natura di esseri psico-logici e non logici. Questo è fondamentale per comprendere la sua naturale traduzione si manifesti nel fatto che un ragionamento valido logicamente possa essere surclassato da uno verosimile, ma raccontato molto bene. Quindi, si capisce con chiarezza perché noi siamo estremamente vulnerabili alle storie e ai film, essendo dotati di un cervello non logico, bensì narrativo. E’ su questo, perciò, che può attecchire un sistema comunicativo fondato non sulla sostanza della verità, bensì sulla appariscenza dell’involucro, sulla patinatura della copertina, il che dà nitore alla tesi la nostra evoluzione sia avvenuta non in senso sillogistico, ma storico-descrittivo, quasi rapsodico. Paradossalmente, dunque, il modo per compattare le storie verosimili ma false è quello di propinare narrazioni che siano verosimili ma vere e qui entra in gioco il tema della responsabilità, altro grande pilastro che l’autore propone alla nostra attenzione e che è un ulteriore motivo sotteso al libro. Non a caso, esso funge da filo rosso che attraversa tutti i capitoli del volume, costituito da tante lettere dell’alfabeto quante sono le parole simboliche scelte per costruirne la riflessione. Ventitré parole selezionate con perizia che raccontano il nostro mondo, la nostra modalità di vedere e interpretare la narrazione delle storie. La questione antropologica essenziale di fondo è la venuta alla luce – nei mesi bui della pandemia, quando c’è stata la necessità di comunicare alle persone l’andamento di un fenomeno nuovo, pericoloso, che ci coinvolgeva tutti – della necessità di spingere le comunità all’azione (da qui, appunto, il titolo stesso dell’opera “Parole che fanno…”). La sostanza è che non ci si è riusciti perché se i numeri – il caso del periodo della pandemia è iconico, appunto – non sono inseriti nell’ambito di una storia, all’interno della quale il singolo vale in misura maggiore della moltitudine, il linguaggio e la sua sostanza non arrivano nella loro pregnanza e si arresta sul nascere il valore del fare delle parole, appunto. Da una parte, questo meccanismo può essere usato strumentalmente per spingerci a pensieri, azioni, nonché alla formazione di credenze di un certo tipo, ma, dall’altra, la stessa tecnica e logica possono essere impiegate, anzi dovrebbero esserlo, per rendere più consapevoli i cittadini, ad esempio sui rischi connessi a certi comportamenti; invece, è come se ci fosse un tabù da questo punto di vista, e i settori pubblici di informazione ragionassero di avere di fronte degli automi razionali, capaci di fare calcoli costi/benefici, valutare in maniera precisa i dati a disposizione e di deliberare in maniera logica. E’ una finzione della quale si stenta ancora a prendere consapevolezza, come ci fa notare argutamente Pelligra. Un lavoro, quello dell’autore, che, attraverso gli strumenti delle scienze comportamentali, in definitiva ci orienta all’insegna dell’analisi profonda dei meccanismi regolatori della comunicazione sociale, attribuisce un senso meno sentimentalistico e maggiormente speculativo alle nostre percezioni, ci aiuta a capire il perché del fatto propendiamo verso certe credenze e non altre, ma soprattutto, in definitiva, fa luce sul senso delle nostre azioni. Conoscere queste dinamiche è un passo evolutivo fondamentale alla volta del disvelamento del significato addentro alla storia, alla notizia e ci permette di costruire un’idea articolata di ciò che si cela dietro alle parole, scegliendole con più cura, premura e pertinenza. In un’espressione, con più attenzione.

(*) Vittorio Pelligra, Parole che fanno – La logica occulta della comunicazione, Città Nuova, 2022, 144 pagine, 16.90 €. Prefazione di Annamaria Testa

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